Giovani Universitari In Parlamento

INTERVISTA AL PROFESSORE MARCO OMIZZOLO SU IMMIGRAZIONE E ACCOGLIENZA

Come Gazzetta che vuole soprattutto dedicarsi a temi che interessano le giovani generazioni e il futuro della nostra nazione, riteniamo di cruciale importanza approfondire fenomeni che ci riguardano in prima persona come cittadini italiani. Per adempiere questo compito, è sicuramente utile confrontarsi con esperti e studiosi che dedicano tempo ed energie a indagare dinamiche complesse e profonde. È un onore poter continuare il ciclo di interviste con uno studioso di alto calibro come Marco Omizzolo, docente di sociopolitologia delle migrazioni alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università La Sapienza e ricercatore di Eurispes e di Amnesty International Italia. Lavora da molti anni sul tema delle mafie italiane e straniere in Italia, sulle migrazioni, sulla tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo e sul caporalato. A gennaio del 2019 è stato insignito, dal Presidente della Repubblica Mattarella, del titolo di Cavaliere della Repubblica per meriti nello studio e contrasto al caporalato e alle agromafie.

Qui di seguito l’intervista registrata il 26/02/2025 che abbiamo diviso in 5 parti per coprire il più possibile la vastità degli argomenti trattati.

Introduzione

Professore, che cos’è che l’ha portata a interessarsi al tema dell’immigrazione?

Ci sono diverse ragioni per cui mi sono interessato al tema dell’immigrazione. Da una parte perché è un tema all’ordine del giorno su cui ci si può informare al computer, alla televisione o al cellulare. È un tema che ti sommerge nel senso che ti arriva d’impatto per la gravità e per la complessità dello stesso e quindi era molto difficile escluderlo dalla mia riflessione. In secondo luogo, c’è una storia personale che intercetta, anche in qualche modo da protagonista, la questione delle migrazioni. Le mie famiglie di origine hanno vissuto le peggiori migrazioni forzate del Novecento legate a regimi dittatoriali con conseguenze anche molto gravi. Poi perché io le discussioni le ho trovate dentro casa mia e inevitabilmente ho iniziato a interessarmi rispetto alle ragioni per cui la mia comunità risultava stanziata proprio in provincia di Latina, dove lavorava, come era venuta, quali erano i progetti migratori. Infine la mia tesi di dottorato mi ha dato la possibilità di professionalizzare questa ricerca e tentare di dare alcune risposte. Quindi è una composizione di fattori che mi ha spinto a seguire questo percorso e questa tematica.

All’inizio di ogni discussione è sempre utile definire i termini che verranno utilizzati. Per lei che cosa significano accoglienza e integrazione nel fenomeno migratorio?

Riguardo l’accoglienza io ne do un’interpretazione più ampia rispetto a quella formale prevista dalle norme e dai bandi oggi vigenti in Italia e in Europa. Per me l’accoglienza significa intanto prescindere da quelle politiche di securitizzazione e militarizzazione non solo delle frontiere ma anche dei territori nazionali, come invece è stato prodotto nel corso degli ultimi 30 anni. Quindi per accoglienza intendo un processo nel quale la società sviluppa un approccio intanto interrogativo, non prepotente o violento, nei confronti dei migranti e con questi avvia un percorso di rinnovamento. Per me l’accoglienza è questo a partire dal fatto che considero le migrazioni una pietra d’inciampo capace di generare quell’effetto specchio, come ci ha insegnato Abdelmalek Sayad, che consente a noi e alle istituzioni di disvelare ciò che queste hanno in corpo ma che non riescono ancora a manifestare e che spesso sono atteggiamenti discriminatori. Quindi da questo punto di vista il sistema di accoglienza sociale ha la capacità di migliorare il nostro paese.

Integrazione invece è un concetto che a me non piace. Io non parlo di integrazione perché questa presuppone un’assimilazione: un migrante arriva come interprete di un’altra cultura da noi ma per integrarlo bisogna farlo diventare come noi. Questa sorta di assimilazionismo molto etnocentrico non mi appartiene e non mi convince. Io parlo molto più di inclusione sociale e cioè di un progetto che potrebbe essere un punto di svolta, a livello europeo e mondiale, in cui le persone vengono rispettate in quanto tali, in quanto interpreti di una cultura loro. È la relazione sociale che fa la differenza, non la categoria dentro la quale mettiamo le persone. Purtroppo molto spesso l’idea di integrazione si è accompagnata a quella di spoliazione, anche obtorto collo, della cultura dell’altro/a per farne uno simile a noi e quindi replicabile in questo senso. A me quest’integrazione non convince affatto.

Quali sono le principali differenze tra l’integrazione dei primi migranti e il sistema attuale?

Le differenze sono notevoli. Intanto va riconosciuto che il sistema di accoglienza attuale non nasce con i flussi migratori conosciuti nel corso degli ultimi anni ma nel dibattito interno all’Assemblea Costituente che ha previsto il diritto d’asilo nell’articolo 10[1] della nostra carta costituzionale sulla base del principio di universalità dei diritti umani. Questo consiste nel riconoscere l’altro come persona dotata di certi diritti a prescindere dal luogo in cui è nata. Se nella sua patria i suoi diritti fondamentali sono violati, il migrante deve sapere che l’Italia gli riconosce il diritto di presentare la domanda di asilo e poi di accoglienza. Quindi questo sistema nasce con una specifica cognizione di ciò che sono stati i regimi dittatoriali come il fascismo e il nazismo: questo dettaglio non lo dovremmo mai trascurare.

È evidente che nel corso degli anni sono nate delle differenze. Trent’anni fa i migranti erano una minoranza molto esigua inserita in un mercato del lavoro propedeutico a quello degli italiani. Ciò portava addirittura le istituzioni a negare il fenomeno migratorio. Oggi nessuna istituzione od organizzazione può negare la presenza dei migranti dal momento che costituiscono il 10% della popolazione italiana. Sono quindi una componente stabile e questa è una prima fondamentale differenza. Vi è però anche un elemento di comunanza, vale a dire che noi abbiamo costruito un mercato del lavoro segmentato in cui i migranti vanno sempre ad occupare posizioni marginali in cui il lavoro è tendenzialmente sfruttato e non ben considerato socialmente. Questo si colloca in un processo di sostituzione non dell’italiano lavoratore con l’immigrato ma del lavoro sicuro con quello insicuro in cui il lavoratore svolge le sue attività spesso in violazione anche dei suoi diritti fondamentali. Oggi abbiamo una maggiore presa di consapevolezza rispetto a ieri perché riconosciamo il problema, tuttavia i migranti continuano a vivere condizioni di marginalità per volontà politica di questo paese. Vi è poi un elemento ulteriore di differenza rispetto ai primi anni: oggi noi abbiamo un complesso normativo che palesa quei processi di discriminazione a partire dalla vigenza da oltre vent’anni della legge Bossi-Fini[2].

A partire da quello che abbiamo appena detto, secondo lei dopo i primi flussi migratori legali ci sono state delle limitazioni da parte degli Stati per il rilascio della Visa o l’ingresso legale all’interno dei paesi?

Ce ne sono state una molteplicità a partire dal processo di Rabat, passando poi per il Processo di Khartoum e gli accordi tra Malta e Turchia. Ad esempio il processo di Khartoum è nato per volontà dell’Unione Europea ma su indicazione del Governo italiano durante il semestre di nostra responsabilità: il prodotto principale è stato quello che viene definito esternalizzazione e militarizzazione dei confini con tutta una serie di limitazioni molto gravi. Non solo è stato impedito il diritto di accesso ai migranti, spesso profughi, ma, una volta arrivati in Italia, ci sono una serie di sistemi di contenimento o anche di reclusione (si pensi ai CPR) che hanno determinato una netta distinzione tra l’italiano e il non-italiano. Alcuni importanti autori iniziano a parlare di sistema di emarginazione o addirittura di segregazione. In questo senso la Visa rappresenta uno di quegli strumenti fondamentali per produrre l’inclusione sociale e purtroppo non è stata costantemente adottata e sostenuta a livello europeo, se non nelle forme più utili dell’Unione Europea stessa. Penso per esempio ai profughi siriani rispetto a quelli afghani. Lo dico oggi visto che è trascorso un anno dalla strage di Cutro: su quella barca c’erano donne dell’Afghanistan che abbiamo costretto, nonostante fuggissero dal regime dei talebani, a salire su un’imbarcazione e a partire dalle coste turche per poi trovare la morte a poche miglia dalle nostre.

Ora una domanda più provocatoria. Perché un migrante dovrebbe pagare migliaia di euro per entrare illegalmente in Unione Europea invece di accedervi legalmente? È una scelta causata da limitazioni burocratiche del sistema europeo o una decisione dettata da necessità del migrante?

La mia esperienza da questo punto di vista è complessa. Io sono stato nei paesi di origine dei migranti, ho seguito i trafficanti di esseri umani e ho partecipato alle trattative in loco, soprattutto in India e in Libia. L’esperienza di ricerca sul campo mi dice che se per esempio tu finisci in un carcere libico e subisci torture di ogni tipo, quando riesci ad uscire di lì dopo aver pagato mediante estorsione del denaro, non hai la possibilità di comprare un biglietto aereo o di essere inserito nel sistema quota italiano. Non esistono riferimenti istituzionali sul territorio in grado di accogliere la tua domanda di valutarla e di darti in tempi rapidi quello che per te non è semplicemente un atto amministrativo ma un documento fondamentale per salvarti la vita. Inevitabilmente ciò che puoi fare è metterti nelle mani di un gruppo di persone che spesso millanta di poterti portare dall’altra parte del mare e risolvere i tuoi problemi. Da questo punto vista è una scelta che deriva da una serie di variabili e una di queste è costituita dalle condizioni materiali, ancora prima che giuridiche, che quelle persone trovano nei paesi di origine e di transito. È difficile che un eritreo/a riesca a presentare domanda di asilo in Eritrea, dove vige una delle peggiori dittature al mondo, o che riesca a farlo in Sudan o in Nigeria dove ci sono gruppi di Al-Qāʿida che certamente non ti fanno da consulente legale. Esistono quindi una serie di fattori che intervengono sulla libera scelta della persona e le impediscono di aderire al provvedimento normativo di un paese, ammesso che lo si conosca. Questo è un altro tema importante. I profughi scappano spesso senza conoscere l’Italia e i meccanismi propri della nostra legislazione. Spesso quindi accettano o sono indotti ad accettare obtorto collo informazioni e procedure a seconda del luogo in cui si trovano.

INTERNAZIONALE

Passando al contesto internazionale, le voglio chiedere se per lei gli accordi di Dublino necessitano di una modifica.

Senza alcun dubbio sì. Gli Accordi di Dublino[3] obbligano il migrante a restare nel paese di primo approdo, determinando così una sorta di stanzialità obbligatoria che non solo ostacola la libera volontà della persona di scegliere dove stare ma obbliga il paese in questione ad assumersi un impegno complesso. L’idea di piantare persone nel luogo in cui arrivano è una grave limitazione che dal mio punto di vista deriva anche da una sorta di delega che l’Unione Europea, per volontà dei paesi del Nord Europa, ha imposto ai paesi dell’area Mediterranea.

Ci sono una serie di proposte più intelligenti che vale la pena valutare. Ce n’è una che prevede di capire se l’immigrato appena sbarcato ha dei contatti con familiari già residenti stabilmente in un altro paese europeo e, se così è, garantirgli il diritto di essere trasportati nella nazione dove risiedono i parenti che potranno fornirgli sostegno materiale e psicologico.  Sarebbe un’inclusione sociale più intelligente. Invece noi abbiamo costruito dei serbatoi di persone inserite in contesti istituzionali iper-sorvegliati che determinano forme di stigma sociale e segregazione.

Guardando a ciò che sta accadendo negli Stati Uniti al confine messicano, a suo avviso potrebbe riprodursi in Europa una situazione simile o sta già accadendo?

Innanzitutto bisogna dire che quel confine è stato istituito da amministrazioni repubblicane e democratiche, così come i processi di esternalizzazione dell’Europa sono sostenuti e finanziati da governi di qualunque orientamento politico. Bisogna anche dire che ci sono delle differenze sostanziali ma nel contempo quella situazione è diventata fonte di ispirazione insieme al muro costruito a sud di Israele per i migranti provenienti dal Sahel. Penso che queste dinamiche di costruzione di confini e presidi militari, come accade nei Balcani, costituiscono, come c’è stato insegnato dalle corti internazionali, una palese violazione dei diritti umani. Occorre fare molta attenzione perché quei fenomeni, come io stesso ho verificato nella rotta balcanica[4], stanno producendo morte. Non si tratta semplicemente di una pratica illegale di respingimento e di reclusione. Ci sono gruppi paramilitari deputati ad intervenire sulle famiglie, compresi i bambini, per impedire loro il transito in qualunque modo, addirittura mediante cani addestrati. Io vorrei tornare sulla rotta balcanica a guardare le stelle e non a trovare i corpi sepolti di bambini nella neve.

Qui in Europa abbiamo un eco mediatico molto forte non solo delle morti nelle rotte migratorie ma anche di certi attacchi terroristici come quelli verificatisi a Monaco o a fine 2024 a New Orleans. Secondo lei questi attentati sono dovuti a una cattiva gestione dell’integrazione?

No, non sono dovuti ad una cattiva gestione dell’integrazione ma a fenomeni globali molto più complessi. Si tratta di una ritorsione di un pezzo del mondo che, senza alcuna giustificazione, ha radicalizzato e interpretato in maniera scorretta regole religiose con l’obiettivo di determinare un ribaltamento del mondo. Quegli attacchi terroristici non sono una protesta nei confronti del sistema migratorio ma soprattutto rispetto alle dinamiche proprie della democrazia contemporanea. Le democrazie possono avere mille difetti ma sono l’unico regime politico che ha la capacità di autogovernarsi e quindi anche di migliorare. Il problema non è la critica di una democrazia in crisi ma quando un attacco terroristico ha come obiettivo gli elementi fondamentali della democrazia. Io credo che la questione terroristica non sia legata alla gestione migratoria ma che miri ad un ribaltamento dell’ordine costituzionale democratico in alcuni paesi.

NAZIONALE

Adesso vediamo più da vicino il nostro Paese. A suo parere l’integrazione in Italia funziona in generale?

In primis, bisogna notare che ci sono degli esempi in questo Paese che sono assolutamente virtuosi, come il CIAC di Parma. L’Italia è una nazione densa di contraddizioni soprattutto rispetto alla questione migratoria. Noi abbiamo 450 mila persone vittime di gravissimo sfruttamento lavorativo. Solo nelle nostre campagne ci sono circa 150 ghetti, come riconosce il Ministero del Lavoro. Nel contempo esistono anche dei percorsi virtuosi e organizzati in maniera adeguata. Da questo punto di vista il nostro sistema di accoglienza sociale e istituzionale presenta un andamento schizofrenico: da una parte vette elevatissime che possono essere un punto di riferimento a livello europeo, dall’altra condizioni di vita assolutamente critiche e negative. Non si può dare quindi una risposta netta alla domanda se questo paese sia in grado di accogliere o meno. È certamente in grado di accogliere e molto spesso ci riesce con grandi organizzazioni assolutamente positive però nel contempo è anche in grado di non accogliere, producendo quelle forme varie di emarginazione che siamo abituati a conoscere.

Entrando più nello specifico, pensa che vi sia un problema nel sistema di integrazione o nella saturazione delle realtà locali (paesi, quartieri) dove si trovano questi centri di accoglienza?

Si tratta di un problema del sistema di accoglienza formale previsto da norme che sono contraddittorie tra loro. Io ho studiato non soltanto i bandi di tutte le prefetture italiane ma anche i capitolati d’appalto che sono spesso scritti senza l’adeguata preparazione. Questi hanno dei livelli di dettaglio straordinario su come si devono potare le siepi dei centri d’accoglienza ma poi tagliano i servizi sociali e sanitari perché li considerano un costo per il paese, a partire dal medico, l’infermiere o ancora l’insegnamento della lingua italiana. Quindi c’è un problema di regolamentazione che non attiene alla produzione della norma ma alla volontà politica che la emette, la quale è spesso molto formale e distante dalla complessità delle situazioni che si trovano nei territori. Ci sono centri di accoglienza avanzati e altri che invece non lo sono, alcuni che sono trasparenti e altri no: queste differenze determinano inevitabilmente nelle varie realtà urbane o periferiche una tensione. Quando mi è capitato di incontrare centri di accoglienza ben gestiti, ho trovato nel circondario una predisposizione positiva, dal barista al netturbino, dal postino agli anziani dell’area. Quando invece quel sistema è saturo, non dal punto di vista quantitativo ma in ragione di un sistema di accoglienza che è soltanto contenitivo e non elaborativo e relazionale, esplodono contraddizioni di diversa natura. Noi non possiamo immaginare di continuare a tenere dentro i centri di accoglienza per quattro anni le persone. Chiunque chiuso obbligatoriamente dentro un centro di accoglienza per 3/4 anni inizierebbe a dare fuori di testa. Bisognerebbe iniziare anche in questo paese a ragionare su un concetto di accoglienza che ha come riferimento le tempistiche insieme ai servizi. Bisogna cambiare ed evolvere anche da questo punto di vista.

Passando a un fatto di cronaca attuale, crede che il progetto avviato dal Governo Meloni in Albania sia da bocciare o si possa migliorare?

Penso che sia da bocciare in totale, come dicono e sostengono i più importanti giuristi, sociologi e filosofi. Si tratta di un processo di allontanamento, se non di deportazione o di delocalizzazione, di quello che alcuni ritengono un problema che viene posto lontano dagli occhi, dall’attenzione mediatica e anche da una riflessione critica. Quello che sta accadendo è che si produce, in un territorio extraeuropeo con un fortissimo accordo politico con il nostro paese e per giunta in un ambito iper-militarizzato, una nostra cantina buia dove riversiamo quelli che continuiamo a definire un carico residuale. Non è migliorabile l’idea della delocalizzazione dell’accoglienza ma si può migliorare l’accoglienza sociale e formale in questo paese con un avanzamento di servizi. Spostare il problema e replicarlo nelle forme iper-securitarie oggi vigenti non può che produrre il continuo disastro che viviamo per esempio nell’hinterland romano con i tentativi di suicidio e le violenze compiute nei confronti dei migranti lì ospitati.

Legato sempre al tema dell’accoglienza è anche il referendum sulla cittadinanza[5], un evento che ci riguarderà tutti in quanto cittadini tra qualche mese. Ritiene che potrà essere un buono strumento per risolvere, o almeno migliorare, l’integrazione degli immigrati nel nostro paese?

Senza alcun dubbio sì. È una delle mie tesi fondamentali ma stiamo ancora a livello teorico. Qualora noi vincessimo quel referendum, mi piacerebbe vedere poi la traduzione concreta in un provvedimento altrettanto coerente con quell’impostazione. Non sempre la storia referendaria ci dice che, ottenuto il quorum a vantaggio di una certa proposta, questa sia stata o articolata o realizzata in forme coerenti. Detto questo, la riforma della cittadinanza è fondamentale perché permette al migrante di non essere soltanto un cittadino al pari di noi italiani ma anche un soggetto politico in grado di auto-rappresentarsi, farsi rappresentare in maniera autonoma e coerente con il proprio progetto di vita nelle istituzioni. Questo cambiamento è di fondamentale importanza ed è forse l’atto politico di maggiore mutamento e trasformazione nella nostra organizzazione istituzionale che questo paese potrebbe conoscere nel corso degli ultimi vent’anni.  Tuttavia, prima di sostenerlo in maniera netta e chiara, ci dobbiamo dire che il referendum non è una produzione automatica di norme. Ci sarà un dibattito ex-post e quindi la traduzione di quella eventuale vittoria referendaria dovrà essere tutta monitorata.

LOCALE

Arriviamo a un ambito che la riguarda più direttamente. Lei si è occupato in prima persona del caso di Satnam Singh, il bracciante della comunità sikh deceduto lo scorso 17 giugno in provincia di Latina ed ennesima vittima del caporalato. Prima di entrare nel caso specifico, le chiedo di spiegare a grandi linee che cosa sia il caporalato e quale sia la sua origine.

Il caporalato ha avuto origine negli albori della storia di questo paese. Si tratta di un fenomeno che prevede l’attività illecita di un intermediario che, per conto di un imprenditore, recluta altre persone per portarle a lavorare in condizioni di marginalità e ricattabilità all’interno di azienda agricole (e non solo). Così facendo, l’imprenditore ricava un illecito vantaggio, cioè un elemento di estorsione e la cancellazione di alcuni diritti di quei lavoratori, anche quelli fondamentali. È un fenomeno che questo paese ha conosciuto e che conosce da decenni. Io penso per esempio a tutto il movimento bracciantile che si è sviluppato in Italia sia a nord e a sud, al movimento delle Mondine o al movimento operaio, tutti gruppi che hanno denunciato in maniera chiara queste attività criminali.

Io sono stato in questo senso fortunato perché ho intervistato persone che vengono da queste esperienze terribili. Queste testimonianze ci ricordano che il caporalato di oggi deriva da quello di ieri, anche se in quello odierno c’è ovviamente una presenza, quella migratoria, che rende il tutto più complicato. Il caporalato però non è sufficiente come elemento per comprendere le dinamiche di cui stiamo discutendo e infatti io parlo nei miei testi di padronato. Con questo termine mi riferisco al fatto che, anche se è il caporale a reclutare e selezionare persone da impiegare dentro l’azienda e si fa pagare per questa attività, le condizioni di lavoro e di sicurezza vengono determinate dal datore di lavoro per conto del quale agisce il caporale. Vi è quindi un protagonismo e una responsabilità diretta del sistema d’impresa nel processo di sfruttamento, come il caso di Satnam dimostra. Egli è stato vittima non di un caporale ma di un imprenditore che, anziché prestare lui soccorso, lo ha portato col braccio spezzato davanti l’uscio della sua abitazione abbandonandolo come fosse un sacco dell’immondizia. È quindi un processo diverso rispetto a quello del caporalato tradizionalmente inteso.

Essendo stata la morte di Singh un fatto con un grande eco mediatico nella nostra penisola, a suo parere è cambiato effettivamente qualcosa da allora oppure c’è ancora molto lavoro da fare?

Sicuramente c’è ancora molto da fare. Già a distanza di un mese dalla morte di Satnam, è accaduto sempre in provincia di Latina un fatto simile, cioè la morte di un altro lavoratore indiano che non è stata colta nella sua drammaticità. Mentre io e lei stiamo parlando, nell’ospedale di Santa Maria Goretti di Latina, è stato ricoverato un bracciante indiano impiegato nell’agro Romano che ha contratto una grave patologia e finora, sperando che la cosa termini qui, gli hanno già tagliato entrambe le gambe a causa della necrosi. Anche di questo fatto non si è parlato.

Il fenomeno va ancora adeguatamente analizzato e studiato non soltanto dal punto di vista strettamente sindacale ma anche sociologico e antropologico. Il caso di Satnam non ha risolto il caporalato e il padronato ma li ha disvelati in una forma più impattante nei media. Stamattina mi trovavo a insegnare in un’università americana e, quando ho citato la morte di Satnam, alcuni studenti si sono ricordati dell’evento, anche se non parlavano la nostra lingua, perché erano già residenti in Italia. C’è una consapevolezza maggiore ma la traduzione di quel caso e di molti altri in proposte normative e politiche adeguate deve ancora avvenire. Qualche giorno fa è stato riproposto il click day [6] contenuto nella legge Bossi-Fini che è una delle ragioni che permette al sistema di tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo di continuare a esistere e lo dimostra il fatto che noi stiamo replicando un sistema completamente sbagliato che non va verso la soluzione dei tanti casi di Satnam ma soltanto verso il loro ripetersi.

CONCLUSIONE

Infine le volevo chiedere dei consigli di lettura per informarsi su questo fenomeno così cruciale per il futuro dell’Italia ma anche così trascurato nella sua complessità dai media principali.

È sempre brutto citare i propri libri ma quasi tutta la mia pubblicistica è proprio su questo tema. Mi permetto qui di citare tutti i libri di Alessandro Leogrande perché sono un ottimo inizio. È stato un giornalista che prima di tutti e forse meglio di tutti ha iniziato ad indagare il fenomeno e a denunciarlo con riferimento particolare alla Puglia. Penso per esempio al suo celebre libro “Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud”. Io direi di partire da quello e poi, una volta compresi gli elementi centrali di quella situazione, crescere fino ad arrivare ai giorni nostri. Esiste l’osservatorio Placido Rizzotto che fa delle pubblicazioni importantissime ogni due anni . C’è il Centro Studi e Ricerche IDOS che con il loro dossier immigrazione si occupano del tema. Vi è poi l’istituto Eurispes che pubblica dossier sulle agromafie. Queste sono forse le tre strade principali da seguire per poi andare ad analizzare fenomeni più nello specifico.


[1] “L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici”. [N.d.A.]

[2] Normativa che disciplina l’immigrazione e andava a modificare la precedente legge Turco-Napolitano del 1998. Tra le principali novità introdotte dalla Bossi-Fini rispetto alla normativa precedente vi furono: può entrare in Italia, e poi rimanervi, solo chi è già in possesso di un contratto di lavoro che gli consenta il mantenimento economico; obbligo di rilevamento e registrazione delle impronte digitali degli immigrati al momento del rilascio o del rinnovo del permesso di soggiorno; respingimenti in acque extraterritoriali e reato di favoreggiamento; espulsioni immediate con accompagnamento alla frontiera; aumento della permanenza nei Centri di Permanenza Temporanea (oggi CPR – Centri di Permanenza per il Rimpatrio) da 30 a 60 giorni. [N.d.A.]

[3] Trattato internazionale firmato nel 1990 a Dublino per disciplinare la materia relativa al sistema dell’accoglienza e delle richieste d’asilo all’interno dell’Unione europea. Uno dei principi cardine che lo costituisce è quello secondo cui è che lo Stato di primo approdo del migrante deve far fronte al sistema d’accoglienza, domanda d’asilo inclusa, impedendo quindi che i richiedenti tale diritto facciano richiesta in più Stati membri. Questo serve a evitare il più possibile che vi siano richiedenti asilo detti “in orbita” e cioè che siano trasportati da uno Stato membro ad un altro. [N.d.A.]

[4] Con questo termine ci si riferisce agli arrivi irregolari nell’UE attraverso la regione composta da: Albania, Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Montenegro, Macedonia del Nord e Serbia. [N.d.A.]

[5] Referendum col quale si vogliono ridurre da 10 a 5 gli anni di residenza legale in Italia richiesti per poter avanzare la domanda di cittadinanza italiana che, una volta ottenuta, sarebbe automaticamente trasmessa ai propri figli e alle proprie figlie minorenni. [N.d.A.]

[6] Con questo termine si indicano le date, individuate nel decreto flussi annuale, a partire dalle quali è possibile presentare le domande di assunzione per venire a lavorare in Italia dall’estero. L’ultimo click day è avvenuto a inizio febbraio 2025. [N.d.A.]

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