Il timore di riconoscersi umani in tempi difficili
Quando nel suo intervento per il simposio “Chiesa sinodale, amore politico” svoltasi il 14 dicembre 2024 e organizzato dalla Fondazione Fratelli Tutti, Romano Prodi, uomo dalla lunga carriera politica introdusse il suo discorso geo-politico circa i conflitti attualmente presenti e discussi nel mondo rammentò la penna di Dostoevskij che «forse meglio di chiunque altro ha saputo descrivere i tormenti dell’essere umano». Proprio Dostoevskij, autore russo di fine ‘800, finì sin dall’inizio della guerra in Ucraina al centro di polemiche volte a censurarlo soltanto per i suoi natali. Aldilà dell’ignoranza letteraria di chi sostiene tale silenzio – su cui lo stesso poeta avrebbe avuto da lamentarsi – Prodi ci fornisce un ottimo motivo per interrogarci: perché un politico parte citando un autore vissuto duecento anni fa?
Perché il timore, di questi tempi ma in verità in tutte le epoche, è forse quello di riconoscersi simili all’avversario, trovarsi fatti della stessa sostanza è altresì scomodo, fuori programma, in altre parole: uno scandalo. L’altro, finché preserviamo la sua alterità (e la nostra), alzando mura e sottolineando differenze come ad alienarlo, ci fa meno paura, ci realizza superiori o inferiori ma mai medesimi.
È però nella relazione con l’altro che si scatena la conoscenza, non come mera informazione, nozione enciclopedica che potremmo scovare tra mille, bensì quell’incontro tra soggetti che ci fa intelligenti. I libri sono una livella per dirla come il brillante Totò. Non si sfugge: «mentre noi leggiamo, loro leggono noi» afferma Bianca Chiabrando in Io sono Alice, avventure e disavventure nel paese dei libri parlanti (Mondadori 2020). Malala Yousafzai, premio Nobel per la pace 2013, disse dinnanzi alle Nazioni Unite che «un libro, un insegnante e una penna possono cambiare il mondo». Lo gridò dal pulpito lei con tutto il valore della sua testimonianza dato che per studiare nel suo Paese finì per oscillare tra la vita e la morte. E non solo perché la povertà lessicale è anche segno di una povertà materiale e spirituale ma anche perché i libri sono capaci di tracciare nuovi confini di umanità. In sintesi: Homo sum, humani nihil a me alienum puto (Sono un essere umano, non ritengo a me estraneo nulla di umano) come scrisse il commediografo latino Terenzio nella sua Heautontimorumenos.
Alla Biblioteca Apostolica Vaticana abbiamo visto come queste parole siano vecchie quanto il mondo. Tra gli stemmi di Sisto V un affresco rappresentava due villaggi collegati da un ponte su cui erano distribuite pagine di libri. È così che la cultura unisce popoli e epoche. I personaggi vestiti in abiti rinascimentali possono così giungere a conoscere quelli in costumi medievali. Spazi e tempi che si annullano davanti ai libri che siano questi in brossura, su carta, papiro o pergamena, che siano stampati o manoscritti, integri o senza copertina: la pretesa dell’uomo di superarsi e di rendersi immortale attraverso l’inchiostro, esaurire il proprio desiderio di eternità mettendo nero su bianco i propri pensieri. Così Marco Polo, celebrato in occasione delle iniziative per celebrare i 700 anni dalla morte e di cui abbiamo seguito l’itinerario di una vita alla mostra presso la Biblioteca di Palazzo Corsini e alla fiera del libro Più Libri Più Liberi – La misura del mondo al Centro Congressi La Nuvola all’Eur, è stato tra i primi reporter dell’antichità, narrando l’Oriente scrivendo diari, testimoniando come una fotografia, ai contemporanei e ai posteri, il lungo viaggio sulla Via della Seta, tessendo la trama de Il Milione, quello che sarebbe divenuto un classico.
Paola Zannoner, che abbiamo incontrato a Firenze, con gli occhi di chi ama e dunque conosce la sua città ci ha spiegato che è proprio questo l’ingrediente che un autore mette nella sua ricetta per rendere un libro un classico: farlo custode di emozioni che non passano, che ci avvicinano agli altri nella loro diversità, ovunque essi si trovino. E Firenze questo lo sa bene. È San Francesco che parla al Sultano come abbiamo potuto contemplare nelle scene del film del 1972 Fratello Sole, Sorella Luna, accolti alla Fondazione Franco Zeffirelli nel periodo della mostra dedicata alla pellicola che divenne un vero cult. È l’arte, è in quei dettagli che il regista inserisce a teatro come al cinema anche se lo spettatore nell’ultima fila non avrà modo di distinguerli, essi devono esserci in ogni caso o sarà come se il re non fosse abbastanza re, Violetta o Giulietta abbastanza Violetta o Giulietta, il cavaliere abbastanza cavaliere, il papa abbastanza papa. È il genio di Zeffirelli, il suo teatro cinematografico che fa brillare gli occhi agli esteti. Ogni forma di espressione delle sette arti è capace di essere linguaggio universale che in un paese civile non dev’essere per questo messo a tacere.
Questa poliedricità che diventa campo comune, nota da cui far partire un discorso nonostante le grandi apparenti differenze, l’abbiamo potuto riscontrare anche visitando l’Ambasciata del Brasile in Italia (nel bellissimo Palazzo Pamphili che si affaccia su Piazza Navona) o l’Ambasciata di Francia presso la Santa Sede di Villa Bonaparte. L’arte, come un libro, concilia la parola, diventa una soglia da varcare, una porta (essendo in tempo Giubilare) che aiuta a mettere in dialogo paesi distanti per usi e costumi. Questo può stupirci. Ma se ci scuote significa che siamo sulla strada giusta per riconoscerci, indipendentemente dalla nazionalità, dalla lingua, dalla religione che professiamo, esseri umani.
Questo vuole essere il manifesto 2025 per la Sezione Culturale. Parlare di incontri, di libri, di arte, di persone, di Storia e di storie, di umanità che è drammatica bellezza. Per aprire le porte del cuore e della mente, per riflettere e confrontarci su grandi temi e autori del presente e del passato, liberi per davvero.